IL SITO DELLA PROVINCIA DI NOVARA

Mirafiori: tutti i rischi dell'accordo di natale.

28.12.2010 16:46

di RENATO CAMBURSANO parlamentare IDV

Salutato da alcuni come un evento epocale, esecrato da altri con toni apocalittici, il patto siglato il 23 dicembre dalla Fiat e dai sindacati (con l’autoesclusione della Cgil) sul futuro di Mirafiori è destinato a modificare radicalmente le relazioni industriali. Per il dipietrista Cambursano occorre aprire un “tavolo sullo sviluppo”
 

Giovedì 23 Dicembre a Torino i sindacati, con la sola esclusione di Fiom/Cgill  e Fiat hanno firmato un accordo che prevede la riscrittura di punti importanti del contratto di lavoro, che riguardano da una parte la pausa-mensa, i giorni di malattia, gli orari di lavoro, i turni, ecc.,  dall’altra la nascita nel 2012 di una nuova società che gestirà lo stabilimento di Mirafiori – una joint venture tra Fiat e Chrysler che investirà un miliardo per produrre 250-280 mila Suv  e fuoristrada on marchio Alfa e Jeep.

Le valutazioni ed i giudizi a caldo sono stati diversi sia all'interno delle forze politiche e delle istituzioni  che dei lavoratori. Vorrei pormi delle domande e tentare di dare delle risposte.

 

Le domande sono le seguenti:

1) La probabile uscita di Fiat da Confindustria, sarà seguita da altri gruppi industriali?

2) E' un accordo utile all'economia e alla coesione sociale?

3) Che ne sarà delle relazioni industriali e di quelle sindacali ?

 

Ora provo a dare qualche risposta, conscio di non avere la verità in tasca, ma con l'intento di suscitare un confronto non accademico ma operativo tra le forze politiche a livello nazionale e a livello torinese.

 

La Fiat è la Fiat, quel che fa finisce per avere un forte valore simbolico, e dato che le relazioni industriali vivono anche di simboli, ritengo che le decisioni di Sergio Marchionne finiranno per trascinare altre aziende che vorranno uscire dal contratto nazionale e da Confindustria. Questo costringerà l'Associazione degli industriali ad interrogarsi sulla propria ragion d'essere, che resta quella di firmare i contratti.

Non solo, in Italia non c'è nessun imprenditore che abbia lo standing o il coraggio di contrapporsi al Ceo italo-canadese. Se uscirà Fiat, saranno le aziende pubbliche a mantenere Confindustria, ecco perché tanti imprenditori chiedono di modificare gli equilibri di rappresentanza interna, e se non ci riusciranno, seguiranno Marchionne.

 

Alla seconda domanda, non ci sono risposte certe né tantomeno precostituite. Che vecchie “regole”, scritte e non, abbiano fatto il loro tempo in epoca di globalizzazione, è cosa certa, ma l'assenza di regole può creare grossi problemi alla coesione sociale, soprattutto se si accompagna alla totale assenza della Politica e del Governo. Fuori, quindi,  da Confindustria, fuori dal contratto nazionale, fuori dalle regole pattizie della rappresentanza sindacale e addio – almeno per Mirafiori e Pomigliano – al “protocollo Ciampi “ del 1993: questo è lo scenario in cui ci si trova.

A fronte di questo scenario, tutto è possibile:  “carte bollate” sino al ricorso alla Corte Costituzionale, ma anche lo scontro sociale, che il Governo non solo non sta facendo nulla per evitare,  ma – non so quanto involontariamente – lo sta provocando. Pensiamo solo un attimo all'emarginazione della FIOM, che le politiche e non-politiche del Governo in generale e del Ministro Sacconi in particolare, hanno prodotto. Una strada carica di rischi, a meno che si pensi che sia veramente possibile governare Mirafiori, Pomigliano e altri stabilimenti industriali,   dopo aver negato il diritto di esistere a uno storico sindacato come quello dei metalmeccanici della Cgil.

Quanto avvenuto a Torino è l'inizio della nuova era di una Fiat che non è più quella illustrata il 21 aprile sorso ma quella minacciata come alternativa. Una Fiat che sta certamente più di prima in uno scenario di globalizzazione  ma meno di prima nella sede dove essa è nata. Il maggiore dei rischi è quello di una reazione a catena che porti al famoso “ Piano B “ di Marchionne, cioè il progressivo abbandono dell'Italia  da parte  del Lingotto.

Urge un tavolo sullo sviluppo, aperto alla Cgil. Sarebbe uno smarcamento dai diktat della politica, capace di riportare sul giusto piano le relazioni industriali.

Ed eccoci alla terza domanda: che sarà delle relazioni industriali e sindacali ?

Premesso che nel XXI secolo, in un sistema democratico, senza consenso sociale non si governa né un Paese né una fabbrica – ecco perché il 60 per cento dei lavoratori di Pomigliano è stato vissuto da Marchionne come un insuccesso: i no sono il segno di un dissenso minoritario, ma sufficiente a impedire la governabilità dell'azienda – le parti sociali (imprenditoriali e sindacali) e il Governo devono urgentemente riprendere le redini in mano della politica industriale in questo nostro Paese.

 

La crisi ci può consegnare due modelli diversi di Italia: un Paese deindustrializzato  oppure uno che rilancia su basi nuove la propria vocazione industriale. Dobbiamo evitare il primo scenario e lavorare per il secondo.

Occorre riprendere con urgenza il Protocollo sul Welfare negoziato da Romano Prodi nel luglio 2007 che aveva iniziato un percorso di riforma e di rafforzamento degli ammortizzatori sociali.

La difesa del lavoro non può ridursi alla vecchia cassa integrazione e alla cassa in deroga. Serve molto di più. Servono ammortizzatori sociali universali, nuovi meccanismi di salario d'ingresso, forme straordinarie di incentivazione a favore dell'occupazione femminile, nuovi contratti di solidarietà. Tutto questo a difesa del lavoro che c'è e che non va assolutamente perso. A seguire viene il resto, compresa l'applicazione del nuovo modello contrattuale basato sul rafforzamento del salario di produttività.

 

Oggi nel nostro Paese convivono due mondi distinti. Quello dei garantiti, dei lavoratori stabili coperti da un welfare modellato a uso e consumo  del maschio italiano di mezza età. E quello dei precari, dei giovani, degli immigrati, degli over 50 usciti anzitempo dal mercato del lavoro. Sono loro i nuovi “invisibili”, tutti rimasti fuori da una cittadella dei diritti sempre più settaria ed esclusiva. Una politica veramente riformista deve avvicinare le generazioni e deve unire questi due mondi.

 

Qualcuno dice che la globalizzazione ci ha incastrato. La verità che ci siamo lasciati incastrare dalla globalizzazione, non abbiamo saputo governarla. Così mentre le trasformazioni mondiali obbligavano tutti a cambiare passo, noi non abbiamo avuto la forza o la lucidità per farlo. Abbiamo preferito aggirare gli ostacoli, pensando solo al presente. E il futuro di allora – cioè il presente di oggi – ci ha portato il conto.

 

(*deputato Italia dei Valori)

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